Stavo leggendo il nuovo libro “Storia e geografia del Giro d’Italia” di Giacomo Pellizzari, autore del blog ciclista pericoloso , presente su twitter e su facebook.
Di Pellizzari avevo già letto “Ma chi te lo fa fare” (2014) ed “Il carattere del ciclista” (2016), due libri scritti davvero bene da cui traspare, come per tanti di noi, la passione per la bicicletta e le sue sfide.
Ma torniamo a bomba all’ultima release; Come si può intuire dal titolo vengono raccontati, accostandoli ad avvenimenti dei giri d’italia trascorsi, parecchi scorci del territorio italiano dove la corsa più amata è passata.
Uno di questi capitoli, per la precisione il terzo, si intitola “Prati di Mezzanego”. Lì per lì ho pensato, nome famigliare, poi ho scoperto che trattava davvero delle nostre zone dell’entroterra e ne sono rimasto affascinato.
Spesso ci troviamo a percorrere queste strade con gli occhi di chi ci è nato e perdiamo spesso la poesia che vi si nasconde, con gli occhi dell’autore possiamo invece capire quanto siamo…
fortunati a percorrere queste strade e rivivere, purtroppo in atmosfera crepuscolare, quella che è stata la tappa che ci ha visti protagonisti e nella quale ha perso la vita Wouter Weylandt.
Ho contattato l’autore del libro ed ho chiesto il permesso di pubblicare parte di quel capitolo, una volta che ha saputo della manifestazione che ogni anno viene organizzata dalla ns. Società in memoria di WW108 è stato ben felice di concedere il permesso. Vi invito naturalmente a comprarne il libro completo, non ne sarete delusi, così come degli altri due.
Magari più avanti avremo modo di parlarne in maniera approfondita. ma veniamo alle sue parole:
Mi sono svegliato presto, ho riempito le borracce, agganciato i pedali e, mentre il sole stava appena sorgendo, sono partito. È il momento migliore della giornata, non c’è nessun dubbio. Silenzio, quiete, solo una leggera e piacevole brezza che sale dal mare. Sto pedalando al centro di un impressionante intrico di gole e valli, talora ombrose e selvagge, altre volte aperte e luminose. Siamo al confine tra la Liguria e l’Emilia, una terra di valichi e passi. Una volta qui c’erano solo briganti e carrozze da rapinare, come per esempio sul vicino passo del Bracco, meta di frequenti agguati e aggressioni. Da scappare a gambe levate. Oggi, al massimo ci trovi qualche motociclista in gita oppure camionisti che hanno perso la via maestra. Asfalto sempre irregolare e maltenuto, curve a gomito improvvise e magari qualche cinghiale che sbuca all’improvviso. Devi conoscerle bene queste strade, altrimenti è sicuro che ti ci smarrirai. Del resto, è proprio questo il motivo per cui ci si viene. Val Fontanabuona, Val d’Aveto, la selvaggia Val Graveglia, il passo della Forcella, quello del Ghiffi, e infine Barbagelata, un nome che mette i brividi solo a pronunciarlo. E poi le vie secondarie, i laghi nascosti, come quello di Giacopiane, e le antiche miniere di Gambatesa. L’entroterra del Levante ligure è un mondo a parte, fatto di tesori tutti da scoprire. Uno scrigno segreto, da aprire alla bisogna, pieno di incantesimi e luoghi magici. Qualunque ciclista lo sperimenti finirà per innamorarsene perdutamente. I paesini qui sono solo minuscole macchioline di colore lasciate a terra da un gigante buono. Quasi che le avesse fatte cadere come gocce dalla sua tavolozza.
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Poco dopo il piccolo abitato di Mezzanego, in località Borgonovo Ligure, svolto a destra. Una brusca curva a gomito mi immette nella stradina che cerco. Una via in apparenza secondaria, in realtà assolutamente fondamentale, soprattutto prima che venisse costruita l’Autostrada della Cisa, l’A15 Parma-La Spezia. È la provinciale che conduce al passo del Bocco, a 956 metri di altitudine.
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Mi aspettano 16 chilometri di salita, pedalabili, che non raggiungono mai pendenze impossibili. Ma tuttavia sono pur sempre 16. Dovrò faticare. Con la coda dell’occhio guardo poco più in alto, cerco già uno dei miei punti di riferimento in questa zona. È la piccola località di San Siro Foce, con la sua chiesa e il suo campanile spiovente sembra aspettarmi al varco. Da lì in avanti so che non si incontreranno più case fino al passo, solo faggi e pini. Sembra di essere in alta montagna ma siamo in realtà a due passi dal mare.
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Ho ingranato la moltiplica più piccola, quella da 34 denti, pedalo agile, prendo un paio di sorsi dalla borraccia e poi torno a guardare avanti. Dovremmo esserci.
Il punto è questo. Un piccolo muretto a secco sulla mia destra, lo sfioro appena. Quello mi rimanda indietro, come saluto, soltanto il rumore gentile della mia catena. È un muretto di quelli tipicamente liguri, fatti cioè incastrando minuziosamente piccole pietre una sull’altra. Un enorme Tetris di sassi di varie sfumature di grigio, fatto da mani sapienti e premurose. È corto e basso, quasi l’avessero messo lì apposta. Proprio di fronte, sul lato opposto, nella roccia c’è invece una lapide. La vedi subito perché è circondata da una marea di borracce colorate, quasi una segnaletica fatta di sudore e fatica. Ce ne sono di tutti i tipi: gialle, rosse, a pois, persino alcune con curiosi messaggi scritti ad hoc con il pennarello. Oltre alle borracce, vedo diverse maglie da ciclista, sono tutte stese come uno strano bucato lasciato al sole. La targa è lì in mezzo, sottile e grigia, quasi scavata nella roccia. Si leggono chiaramente due date: 27 settembre 1984 – 9 maggio 2011.
9 maggio 2011, terza tappa del Giro d’Italia. Wouter Weylandt ha 26 anni, a settembre ne compirà 27 e tra qualche mese sua moglie, la bionda e bellissima Anne Sophie, partorirà una bimba. Sono una bella coppia, lo dicono tutti, lei lo chiama “Mon petit play-boy” e lui, ogni volta che lo fa, sorride divertito. Giovani, atletici, con tutta la vita davanti. Per gli amici e i compagni di squadra – la lussemburghese Leopard Trek – Wouter è semplicemente “WW 108”. Unione delle sue iniziali e del dorsale con il suo numero di gara. Weylandt è nato a Gand, cittadina fiamminga delle Fiandre Orientali, dove il ciclismo non è semplicemente uno sport, ma una vera e propria religione, da praticare con cura, sin dalla tenera età. E così, da bambino, Wouter guardava i ragazzi più grandi di lui allenarsi sulle strade umide e fredde del Belgio, sognando di correre con loro. Magari, un giorno,Weylandt ha sbandato proprio qui, toccando con il pedale sinistro il piccolo muretto che ho davanti proprio adesso. Poi è andato a finire, come una carambola, a volo d’angelo prima contro la parete di fronte – quella dove ora c’è la lapide – e infine sull’asfalto. Ha battuto violentemente il capo, e non dalla parte del casco. In tutto 15 o 20 metri di volo. Stava affrontando il passo del Bocco in discesa. La tappa era partita verso mezzogiorno da Reggio Emilia e l’arrivo era previsto per le 17.30 a Rapallo. La sua velocità, in questo punto, era di 75 chilometri orari, forse 80. È un tratto rettilineo, non ci sono tornanti o curve pericolose, si prende velocità facilmente, ma dovrebbe essere un gioco da ragazzi per un corridore professionista. Ancora pochi chilometri di discesa e Wouter avrebbe guadagnato il mare. Fatte un paio di rotonde, avrebbe poi ripreso a salire per l’ultima asperità di giornata, i 2 chilometri a picco sul blu che conducono al Santuario delle Grazie appena sopra Chiavari. E infine, dopo un rapido toboga di curve, Zoagli e quindi l’arrivo a Rapallo, che era tutta in ghingheri per l’occasione. Invece no, niente Grazie, niente toboga, niente Rapallo. Wouter si ferma a Isola di Borgonovo, nei pressi del comune di Mezzanego. Nella discesa del passo del Bocco, esattamente al chilometro 12 dal valico. Il suo unico errore, l’essersi voltato indietro quando non doveva, proprio un istante prima di quel dannato muretto.
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Mi fermo un attimo davanti alla targa. È piccola, discreta, incastonata nel muro tra le pietre, scolpite in alto ci sono persino due piccole mani che sembrano tenerla sollevata. In basso, a sinistra, il busto di Wouter, di un colore leggermente diverso dal resto. Fino a poco tempo fa, qui di fianco c’era anche una bella foto lasciata da qualcuno: “WW 108” a bordo della sua Trek. Alto, biondo, occhiali da sole e caschetto in testa. Sfrecciava che era una meraviglia.
Pellizzari, Giacomo. Storia e geografia del Giro d’Italia (Italian Edition)